Chi più spende, meno spande

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In tema di gestione ambientale, l’argomento che preoccupa maggiormente chi amministra un territorio è la tutela delle acque.

È comprensibile dunque che la questione sia oggetto di un’approfondita normativa e che questa venga fatta rispettare con rigore.

Tra le attività normate che potenzialmente, se mal gestite, potrebbero rappresentare una minaccia ambientale, c’è anche la zootecnia. La minaccia arriva dalle deiezioni che, se riversate in quantità eccessiva sui terreni, potrebbero portare alla percolazione di azoto negli strati profondi del suolo fino a raggiungere le falde acquifere o finire in corsi d’acqua superficiali alterandone l’habitat.

Per prevenire questi rischi, il legislatore si è preoccupato di porre un tetto massimo di reflui producibili dagli allevamenti in rapporto al terreno disponibile su cui spanderli. Badiamo bene: spargere i reflui zootecnici sul terreno è una sana pratica agronomica per garantirne la fertilità e mantenerne elevata la sostanza organica, ma il troppo stroppia, come in tutte le cose.

Il parametro da non superare è quantificato in chilogrammi di azoto per ettaro all’anno (kg N/ha/anno): 340 per tutti i tipi di terreno, salvo dimezzarsi a 170 nelle zone cosiddette “vulnerabili” dove le acque hanno livelli di sostanze azotate già abbastanza alti o dove il terreno ha una scarsa capacità di trattenere gli elementi minerali.

Leggendolo così come è scritto, il limite sembra difficile da rispettare senza poter misurare l’azoto escreto dagli animali, ma a questo provvede lo stesso legislatore, che allega alla norma una serie di tabelle per convertire questo parametro nel ben più comprensibile numero di animali per ettaro. Si tratta di un numero di animali variabile in funzione della specie (e della relativa mole corporea) e, per la specie bovina, anche in funzione dell’attitudine produttiva.

Le aziende in cui si alleva la Piemontese non possono esimersi dal rispetto di questi limiti, ma, grazie a un carico di animali molto basso in rapporto alla superficie agricola a disposizione, hanno la matematica certezza di non superarli. La gestione tipicamente familiare delle aziende in cui si alleva questa razza ha sempre portato a considerare il terreno come una ricchezza, prima ancora che come un fattore produttivo, e ha portato nel tempo ad acquistarne ogni volta che se n’è presentata l’opportunità, a costo di spendere tutti i pochi risparmi disponibili. Una scelta che nasce forse dal desiderio di riscatto dalla condizione di mezzadria in cui in passato si trovavano molte di queste famiglie ma che, comunque, vista oggigiorno si è dimostrata vincente.

Lasciando parlare i numeri che Coalvi ha esposto nel suo bilancio di sostenibilità, risulta che gli allevamenti che ne fanno parte assommano un carico di bestiame equivalente a 1,66 capi adulti per ettaro. Traducendo l’azoto presente nei reflui in questi 1,66 capi la loro produzione annua risulta di poco inferiore a 70 kg per ettaro.

In una simile situazione l’allevatore di Piemontese si trova dunque a gestire una quantità di letame nettamente inferiore a quella che il terreno potrebbe sopportare, addirittura al di sotto della metà del limite più restrittivo, e gli consente di accogliere i reflui di altri allevamenti che si trovino in condizioni opposte, concedendo loro del terreno in asservimento (così si chiama il contratto con cui si concede a terzi lo spandimento sul proprio terreno).

Disporre di tanta terra è un punto di forza nella sostenibilità ambientale, dando futuro all’allevamento, ma può anche diventare oggetto di sostenibilità sociale, dando futuro ad altri allevamenti altrimenti costretti a ridimensionarsi.

Forse a nessuno sarebbe mai venuta in mente la valenza sociale del letame, eppure è così.

 

Coalvi – Consorzio di tutela della Razza Piemontese
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