La definizione di paesaggio viene scritta con sensi di marcia diversi a seconda della scuola di pensiero che la formula. I biologi partono dal suolo, gli architetti da quello che vi è stato costruito sopra, ma entrambi includono nel risultato finale l’opera dell’uomo, con la sua attività agricola e i suoi manufatti.
Da che l’uomo ha imparato a coltivare la terra, la sua opera ha giocato un ruolo fondamentale al punto che non pochi territori sono divenuti famosi per il panorama che si è creato di conseguenza. Si pensi al “mare a quadretti”, come viene chiamata la pianura risicola piemontese e lombarda, o alle colline delle Langhe che, senza i suoi vigneti che ne tracciano le pendenze, non avrebbero mai ottenuto il riconoscimento come patrimonio UNESCO. Se si escludono le cime rocciose o le forre scavate dai corsi d’acqua, buona parte di quello che vediamo si è creato sotto la regia dell’uomo, seppur con risultati contrastanti.
La rincorsa a sfruttare il territorio a fini turistici ha portato alla costruzione di “ecomostri”, ma la stessa rincorsa per sfruttarlo a fini agricoli ne ha salvaguardato l’integrità. Le aree montane, da sempre sotto la lente degli ecologisti per la loro fragile ricchezza, sono state teatro di speculazioni per la pratica dello sci alpino: un’attività che vanta una sostenibilità economica e sociale in grado di compensare quella ambientale che tuttavia, in certi comprensori, è stata un po’ sottovalutata. Quegli stessi comprensori, che danno lavoro a tutto il mondo che gravita intorno agli sport invernali, una volta scioltasi la neve passano il testimone agli allevatori che, con le loro mandrie, salgono dalle pianure a utilizzare l’erba che si riprende il suo spazio stagionale.
È la pratica dell’alpeggio di cui la razza Piemontese è l’interprete quasi assoluta sulle Alpi Marittime e sulle Cozie punteggiando di bianco i pascoli d’alta quota. Le montagne nell’ultimo secolo hanno assistito a un calo demografico imponente e soprattutto ne ha risentito la zootecnia stanziale ma l’abitudine di sfruttarle nella buona stagione è tutt’oggi la garanzia più preziosa per mantenerle vive. Il crescente interesse per le località alpine come meta per il turismo estivo non può prescindere dal lavoro di manutenzione paesaggistica svolto dal pascolo dei bovini, integrato da quello degli ovini e dei caprini nelle zone più difficili e non può prescindere dalla presenza degli allevatori che, in quella sede, si chiamano margari. Sono loro che mettono i campanacci alle vacche, omaggiando di una soffusa colonna sonora le imprese alpinistiche dei cittadini, senza pretenderne i diritti d’autore. Sono loro che percorrono quotidianamente i sentieri svolgendo quei piccoli interventi che ne assicurano la manutenzione. Sono loro che rimangono in quota anche quando infuria il temporale e aprono la loro baita per dare rifugio a chi non è riuscito a mettersi al riparo. Sono loro che conoscono ogni pietra della loro montagna e indicano all’escursionista la via più sicura per raggiungere la meta. Sono loro le vere sentinelle ambientali perché l’ambiente è la risorsa su cui fondano il proprio lavoro. Eppure loro non chiedono nulla, se non il rispetto per il mestiere che fanno. Anche chi concepisce unicamente la montagna come palestra per andarvi a sciare, ricorderà che sotto la neve su cui pennella le sue curve c’è un tappeto erboso alla cui manutenzione, in estate, provvedono i bovini. Se non lo facessero loro, lo dovrebbe fare una squadra di operai il cui costo graverebbe inevitabilmente sulla tariffa del giornaliero. Se non lo facesse nessuno, alla prima curva la neve scapperebbe sotto le lamine, scivolando su un letto di cespugli.
Coalvi – Consorzio di tutela della Razza Piemontese
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