Con l’arrivo dell’inverno l’influenza, malanno di stagione per eccellenza, inizia a mietere le sue vittime. Gli antichi, che evidentemente avevano già a che fare con questo scomodo inquilino, legavano la sua comparsa a una puntuale influenza astrale, da cui il suo nome. In tempi più recenti si è chiarito che la causa è da ricercare in un virus, ma la sindrome che questo è in grado di causare ha mantenuto quel termine di ispirazione astrologica. In tempi ancor più recenti, si è arrivati a prevedere l’arrivo dell’ondata infettiva, a classificare con precisione il colpevole e ad affilare per tempo l’arma per tenerlo fuori dalla porta di casa con risultati non assoluti ma, quantomeno, probabili. Quest’arma si chiama vaccino.
Lungi dall’inserirci nel dibattito scientifico, politico, economico e pure ideologico che si innesca intorno a questo termine, dividendo la popolazione tra favorevoli e contrari (non sempre illuminati dalla scienza) vogliamo prenderci un piccolo spazio per ricordarne semplicemente l’etimologia. E’ lecito chiedersi perché un Consorzio di allevatori, come il Coalvi, debba affrontare un tema simile, ma pare giusto ricordare il ruolo che la zootecnica ha avuto nel far scoprire la tecnica più efficace per creare l’immunità nei confronti di agenti patogeni altrimenti incontrollabili.
Il termine “vaccino” deriva da “vacca” perché la scoperta dell’immunità acquisita venne fatta proprio studiando il vaiolo bovino.
Già si sapeva che certe infezioni batteriche o virali non colpivano soggetti che le avessero già contratte una prima volta. Si era capito, dunque, che l’organismo che avesse superato una malattia sarebbe stato in grado di difendersi da eventuali attacchi successivi. Non si sapeva però che questa immunità potesse crearsi anche contraendo forme di infezione analoghe, ma non altrettanto violente.
Nel 1796 Edward Jenner, medico britannico il cui titolo di naturalista precorreva quello odierno di scienziato, mise in relazione due circostanze che intuì non fossero casuali: i mungitori che operavano su vacche affette dal vaiolo bovino si infettavano con questa forma virale e ne guarivano, perché era una forma poco aggressiva per l’uomo. Questi stessi mungitori, una volta guariti, non si infettavano più con la variante umana che, invece, aveva un esito fatale drammaticamente elevato.
L’intuizione fu giusta e la conferma venne quando lo stesso scienziato provò a iniettare in un bambino l’essudato prodotto dalle pustole vaiolose di un bovino, scoprendo poi che il suo paziente avrebbe superato incolume tutte le ondate infettive del vaiolo umano.
Quel giorno aprì uno dei capitoli più importanti della medicina che, insieme alla successiva scoperta degli antibiotici, permise di cambiare l’esito delle malattie di origine microbica.
La tecnica ovviamente è stata raffinata e ciò che ieri era l’essudato di un animale infetto oggi è un prodotto di sintesi messo a punto in un laboratorio farmaceutico, ma il principio alla base della sua efficacia è sempre lo stesso e il vaccino, pur non avendo più a che fare con le vacche affette dal vaiolo, col suo nome continua a onorarne la memoria.
Coalvi – Consorzio di tutela della Razza Piemontese
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