L’utilizzo zootecnico più interessante a cui può essere destinato il mais è indubbiamente il trinciato integrale insilato, detto in gergo “silomais”. O, con una metonimia di rustici natali, semplicemente “silos”.
Il “silomais”: che cos’è?
In due parole, il silomais si ottiene partendo dall’intera pianta di mais (stelo, foglie e spiga) a uno stadio che viene definito di “maturazione cerosa”. Quest’ultima è una definizione che si ispira alla consistenza della granella, simile alla cera. Tutto l’insieme viene tagliuzzato in pezzi lunghi un centimetro o poco più e viene stipato in un silos dove va incontro a una fermentazione. Terminata la quale è in grado di conservarsi per un lungo periodo. Fra ottobre e novembre, trascorsa una quarantina di giorni dal raccolto, è pronto per essere somministrato ai bovini. È un nutrimento che abbina l’apporto di cellulosa delle foglie e del fusto a quello di amido della granella. Unendo così le virtù di un foraggio a quelle di un cereale.
Preconcetti negativi (e infondati)
Il fatto che sia stato introdotto inizialmente nelle grandi aziende zootecniche lo ha fatto bollare come un prodotto adatto a quelle realtà. Realtà in cui i numeri della produzione contano più della sua qualità. L’opposto di quei principi ai quali si ispira l’allevamento della Piemontese. Da qui, con traballante sillogismo si è giunti a sentenziare che il silomais non è un alimento adatto all’allevamento di questa razza. E, con logica di pari instabilità, è stato additato come responsabile di alcuni difetti di qualità della carne. Dove questi non riuscivano a essere spiegati altrimenti. Cavalcando questa semplicistica dottrina i macellai in passato (ma succede ancora oggi) deprezzavano aprioristicamente gli animali cresciuti “a silos”. Traendone spesse volte vantaggio a danno dei produttori.
Alcune dovute delucidazioni in merito
Sull’argomento merita fare chiarezza. Il silomais si conserva grazie alla sua acidità ma anche grazie all’assenza di ossigeno all’interno del silos. Assenza che è assicurata in tutta la massa, a eccezione del cosiddetto “fronte di taglio”. Con un paragone culinario di dubbio gusto ma, si spera, di buona efficacia, possiamo immaginare l’insilato come un salame. Tutto l’insieme è compatto, roseo e ben conservato. Ma la superficie lasciata esposta dopo aver tagliato una fetta, il giorno dopo sarà ossidata e di sapore diverso. Se ogni giorno mangiassimo una fetta spessa pochi millimetri mangeremmo sempre un prodotto ossidato. Se, invece, tagliassimo una fetta spessa due centimetri, l’incidenza della superficie ossidata, in rapporto al volume dell’intera fetta, sarebbe ininfluente, e mangeremmo sempre bene.
Con l’insilato succede una cosa simile. Se ogni giorno ne consumassimo poso, quel poco sarebbe rappresentato in prevalenza dallo strato ossidato i cui composti, alla lunga, appesantirebbero il metabolismo dell’animale. Ecco dunque il motivo per cui nelle stalle con pochi animali, dove il consumo sarebbe molto limitato, l’insilato è sconveniente. Molte stalle in cui cresce la Piemontese sono di piccole dimensioni. Ciò spiega dunque il motivo per cui in esse non si usi questo alimento. Ma questo non vuol dire assolutamente che non sia adatto a questa razza né tanto meno che comprometta la qualità della sua produzione. Vi sono infatti stalle di Piemontese di dimensioni medio grandi che lo utilizzano con successo.
Un bell’aiuto nell’esorcizzare questo foraggio lo hanno dato gli stessi macellai. Quest’ultimi sempre più si appoggiano alle cooperative degli allevatori per approvvigionarsi di carne, perdendo il legame diretto con la singola stalla. E i preconcetti insorti alla vista delle mangiatoie. E una mano l’ha data la scienza, già più di quarant’anni fa. Con prove sperimentali che, mettendo a confronto bovini alimentati con e senza silomais (ben inteso, di buona qualità) hanno dimostrato che non vi sono differenze significative sulla carne che se ne ottiene1.
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1 Tartari, Benatti, Barge – Annali della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università di Torino (1975/76).