In un numero del 1973 della rivista curata dall’Associazione Nazionale Allevatori di Bovini di Razza Piemontese troviamo un breve articolo a firma di Silvia Marisco che esalta l’utilità della video sorveglianza per controllare le bovine in procinto di partorire e individuare la necessità di intervenire a ragion veduta. Quella della videosorveglianza per i parti era una buona idea e ha trovato un certo consenso. Vedere che cosa succede in stalla stando comodamente nel letto è un bell’aiuto, ma richiede comunque di svegliarsi periodicamente per guardare il monitor. Problema superato dai sistemi attuali che intercettano il comportamento della bovina e lanciano un’allerta all’allevatore, liberandolo dall’obbligo di vegliare lo schermo e il suo monotono spettacolo.
Nel leggere l’articolo emergono alcuni elementi interessanti: alcuni fanno sorridere, pensando all’evoluzione tecnologica raggiunta ai giorni nostri, altri fanno riflettere sulla redditività dell’allevamento dei bovini di razza Piemontese cinquant’anni fa, confrontata con quella attuale.
È evidente, scorrendo il testo, che nel 1973 lo schermo di un televisore era lo strumento attraverso il quale la RAI propinava agli spettatori il suo austero palinsesto. Il concetto di videosorveglianza con un impianto a circuito chiuso nutriva la fantasia dei produttori delle avventure di James Bond e nella realtà quotidiana rimaneva appannaggio della NASA o, al più, delle sale operative delle forze dell’ordine. È interessante leggere che il costo di una telecamera a circuito chiuso si aggirava intorno alle 350.000 lire, pari a tre volte lo stipendio mensile di un operaio. Traducendo in euro e calandoci nel contesto attuale vorrebbe dire 3.500 euro, ossia circa 100 volte il prezzo di un prodotto dei giorni nostri, dotato per di più di trasmissione wi-fi e restituzione dell’immagine su smart-phone!
La testimonianza di un noto allevatore dell’epoca, che aveva dotato la stalla dell’impianto di videosorveglianza, trasudava entusiasmo per questo ritrovato della scienza e della tecnica e ne esaltava i vantaggi economici ricordando che un vitello di razza Piemontese scolostrato poteva valere “anche 300.000 lire”. Lasciava dunque intendere che, riuscendo a salvare anche un solo vitello grazie al controllo della telecamera, la spesa per l’acquisto di quest’ultima si sarebbe compensata. Ritornando ai calcoli fatti in precedenza, 300.000 lire (tale era dichiarato il valore del vitello) equivalevano a un quinto del prezzo di listino di una Fiat 127, l’utilitaria italiana per eccellenza. L’utilitaria italiana per eccellenza oggi si chiama Panda e costa 15.000 euro: se le proporzioni fossero rispettate, un fassone püparin dovrebbe valerne quasi 3.000.
L’autore dell’articolo, a differenza dell’allevatore intervistato, esaltava i vantaggi economici della telecamera guardandoli da un’altra prospettiva, scrivendo: “Se confrontiamo quindi il costo di una telecamera con il costo dei disagi che ogni agricoltore deve affrontare, specie d’inverno, e quello delle cure per eventuali bronchiti o peggio polmoniti causate dal continuo passaggio dalla temperatura esterna bassissima a quella interna di ogni stalla, molto elevata, per controllare che tutto proceda per il meglio, questa è una soluzione ottimale”. Testimonianza di un’epoca in cui le stalle erano a posta fissa, chiuse come un forziere per custodire il capitale più prezioso, senza sapere che quella temperatura “molto elevata” faceva più male che bene.
Per capire se una vacca si accinge a partorire oggi abbiamo a disposizione sistemi ben più efficaci della telecamera, che ragionano non per quello che vedono ma per quello che “sentono”. Si tratta di sensori applicati sulla coda delle bovine che intercettano le contrazioni muscolari tipiche del parto, attivando un segnale su una centralina che, a sua volta, genera una chiamata sul telefono dell’allevatore. A quel punto, chi dovrà alzarsi nella notte per lo meno lo farà a colpo sicuro, attrezzandosi adeguatamente.